Berlusconi e lo sport: dal super Milan alla favola Monza

Una squadra-azienda, campagne acquisti faraoniche, il “bel giuoco” per costruire successi e vendere spettacolo: è la filosofia con cui Silvio Berlusconi dal 1986 ha intrecciato le sue vicende imprenditoriali e politiche con quelle calcistiche, prima per 31 anni alla guida del Milan, portato a vincere in Italia, in Europa e nel mondo, poi dal 2018 da proprietario del Monza, protagonista della scalata dalla Serie C alla A.

Sempre con al fianco dell’amico fidato e braccio destro Adriano Galliani, anche nella sua ultima volta allo stadio, il 26 agosto 2022, all’inizio dell’avventura dei brianzoli nella massima categoria.

L’acquisto del Monza arriva poco più di un anno dopo la cessione del club rossonero, la sua creatura calcistica, al misterioso cinese Li Yonghong, epilogo dell’era del ‘presidente più vincente della storia del calcio’, come amava definirsi lo stesso Berlusconi.

Una conclusione controversa, a otto mesi dal contratto preliminare, dopo due rinvii perché il cinese non aveva tutti i fondi necessari. Non proprio in linea con i fasti della storia rossonera dell’imprenditore a cui si riconosce di aver rivoluzionato il mondo del pallone, da quando il 20 febbraio 1986 rilevò da Giussy Farina la società sull’orlo dal fallimento.

All’epoca si parlò di ingerenze politiche, di scippo all’immobiliarista Giuseppe Cabassi o al petroliere Dino Armani che avrebbe offerto più dei 15 miliardi di lire di Berlusconi. Un salvataggio, “una questione di cuore” ha sempre detto il Cavaliere (negando un interesse precedente per l’Inter) che in 30 anni ha speso per il Milan oltre un miliardo di euro e vinto 29 trofei, segnando un ‘pre’ e un ‘post’ nel calcio italiano, come aveva fatto con la tv e come avrebbe fatto con la politica. Berlusconi introduce l’idea del calcio come spettacolo.

Al primo raduno atterra con la squadra in elicottero all’Arena con la Cavalcata delle Valchirie, chiede maglie rinforzate come nel football per intimorire gli avversari, e si accontenta di quelle acriliche, con colori più televisivi. Sul palco del teatro Manzoni diventa presidente il 24 marzo ’86, accantona l’icona rossonera Gianni Rivera e organizza il club come le sue aziende pubblicitarie e tv, con una divisione marketing, novità per la Serie A.

Vincere divertendo è la missione. “Dobbiamo diventare il club più titolato al mondo” annuncia nell’estate ’87 in una convention al castello di Pomerio. Gli scettici si ricrederanno. Non mancheranno momenti drammatici, la notte di Marsiglia, la finale di Istanbul, fino a Calciopoli.

Fra quelli gloriosi, il primo scudetto in rimonta sul Napoli nell’88, nel 1989 la Coppa Intercontinentale a Tokyo, la coppa dei Campioni vinta nel ’94 sul Barcellona mentre il primo Governo Berlusconi ottiene la fiducia o la finale di Champions con la Juventus nel 2003. Per il Cavaliere, l’allenatore è anzitutto un motivatore.

Pensa subito al coach della Milano del basket, Dan Peterson. Sceglie Arrigo Sacchi (1987-91), che aveva eliminato il Milan dalla coppa Italia con una squadra di B, il Parma. Anche grazie agli olandesi Gullit, Rijkaard e Van Basten, l’intuizione paga, come la promozione dalla Polisportiva Mediolanum (progetto archiviato dopo 5 anni) alla panchina di un altro homo novus, Fabio Capello, fra il ’91 e il ’96.

Mentre il calcio sbarca sulle reti Mediaset e il patron scende in politica affidando il club a Ramaccioni, Braida e soprattutto all’ad Galliani. Fra tv, potere e calcio i confini si sfumano. Da Palazzo Chigi ‘silura’ il ct azzurro Zoff nel 2000 e nel 2001 licenzia dal Milan Zaccheroni che nel ’98 ottiene lo scudetto al primo anno ma sfida il dogma della difesa a tre: diventa il terzo dei 4 esonerati nei primi 15 anni dell’era berlusconiana (dopo Liedholm e Tabarez, prima di Terim). Quattro difensori, una mezza punta e due punte, ordina il presidente.

Ancelotti (2001-09) vince tutto col 4-3-2-1 e se ne va quando Berlusconi gli dà le colpe del campionato perso. Dopo un anno lascia anche Leonardo, per “incompatibilità” col n.1 rossonero, che rivendica i “17 passaggi consecutivi” della sua Edilnord, suggerisce formazioni e rifila battute al vetriolo. Allegri (scudetto 2011 e Supercoppa italiana 2012) è il primo dei tre esonerati dal 2014, oltre agli esordienti Seedorf e Inzaghi. Il feeling è scarso con Mihajlovic e Montella, l’ultimo a vincere un titolo, la Supercoppa italiana contro la Juventus.

Non è più il Milan delle spese folli (i 64 miliardi di lire per Lentini nel ’92 o i 31 milioni di euro per Nesta nel 2002), dei capitani storici Baresi e Maldini, e dei palloni d’oro, da Van Basten a Weah, da Papin a Baggio, da Shevchenko a Ronaldinho, acquisto sbandierato dal leader di FI prima delle elezioni del 2008. L’ultimo pallone d’oro rossonero è Kakà, la sua cessione nel 2009 segna la svolta: fin lì Berlusconi ripiana sempre, poi diventa impossibile resistere alle tentazioni. Partono Ibrahimovic e Thiago Silva, mentre in società iniziano frizioni fra Barbara Berlusconi e Galliani. Il presidente nel 2013 nomina anche la figlia ad e vicepresidente, nasce il Milan a due teste, che non può più dipendere da Fininvest. Barbara realizza Casa Milan e punta sullo stadio di proprietà ma il progetto si arena (il Cavaliere è sempre stato contro l’abbattimento di San Siro), mentre si cercano soci, soprattutto a Oriente.

La trattativa con Bee Taechaubol non decolla, quella con i cinesi è contorta, fra cordate che si sfaldano e caparre dalle Isole Vergini, per rinviare due volte il closing aggirando i limiti all’esportazione di capitali imposti da Pechino. L’avvocato di Berlusconi, Ghedini, va anche in Procura per dimostrare ai magistrati la provenienza lecita dei fondi. Alla fine a Li serve un prestito ponte da 303 milioni di euro dal Elliott, che nel giro di qualche mese subentrerà all’inadempiente cinese. Non è più il Milan dei sogni, ma nel 2022 vince lo scudetto mentre il Monza approda in A, dove finalmente Berlusconi può vedere (ma solo in tv) il derby fra i suoi “due amori”.

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